Un profetico intervento di Attilio Scienza a Ruralia (Gorizia Fiere) 4 ottobre 2002
Questo intervento di Attilio Scienza di oltre due anni fa, su un tema oggi quanto mai attuale e sentito, mostra come il problema della salvaguardia dei vitigni autoctoni e, più in generale, della preservazione delle biodiversità, sia una problematica di sostanza, tutt’altro che legata a effimere mode. Si tratta di salvaguardare un patrimonio genetico enorme, la cui perdita sarebbe irreversibile, impedirebbe di capire meglio il passato e soprattutto sarebbe un incalcolabile danno per la ricerca futura; andrebbero perdute per sempre una serie di caratteristiche biologiche, fisiologiche, organolettiche, non più in alcun modo riproducibili. E questo processo di salvaguardia-censimento delle varietà a rischio di estinzione deve partire “dal basso”, ovvero dai Comuni e dai viticoltori. E deve avere una ripercussione pratica sulla vitivinicoltura: non si tratta di selezionare delle cultivar da mettere in mostra in una collezione, come in uno zoo… (ndr)
“Io vorrei fare un parallelismo, per iniziare quest’anno il mio intervento sui vitigni autoctoni, tra la scomparsa delle lingue nel mondo e la scomparsa dei vitigni. Un libro molto interessante e recente parla delle lingue che scompaiono come le voci del silenzio o come le lingue mozzate. Ecco noi potremmo fare la stessa cosa con i vitigni che scompaiono, come i vitigni silenti, vitigni che non potranno più esprimersi in un vino. Sandmerg ha composto una piccola poesia sulla scomparsa delle lingue, ve la leggo è molto breve:
‘Le lingue muoiono come fiumi, parole oggi avvolte intorno alla lingua che si infrangono al movimento del pensiero, che ora e oggi parlano tra denti e labbra, tra diecimila anni saranno sbiaditi geroglifici’.
Sono circa seimila le lingue parlate nel mondo, ma solo dal 10% della popolazione. Nel Caucaso si perdono circa 100 vitigni all’anno in modo irrimediabile. In Italia 10 vitigni coprono il 50% della superficie coltivata a vigneto. Nella nostra penisola su circa 1500 vitigni presenti, solo 350 sono catalogati e possono essere coltivati. Vedete tra lingua e parola vi è la stessa differenza che tra vitigno e viticoltura, può scomparire una lingua o un vitigno, ma non scompare la parola, la viticoltura.
Come nella lingua, l’estinzione di un vitigno passa attraverso la trasformazione, pensate alle lingue che si sono formate dal latino, le lingue di origine romanza, nei vitigni dalla produzione della varietà Italia ai cloni. Il parallelismo è continuo, noi cercheremo di creare questa identità.
Un altro modo perché un vitigno si estingua è la sostituzione. Quando una lingua viene dall’estero si sostituisce ad un’altra e finisce per essere assimilata. Così i vitigni stranieri si sostituiscono lentamente a quelli autoctoni. Un altro modo per far scomparire una lingua o un vitigno è l’estinzione; l’estinzione di una lingua è l’abbandono totale del suo uso, quella che gli ultimi vecchi balbettano, quello che succede nelle zone viticole marginali per i vitigni reliquia. Vedete la morte di una lingua è come la scomparsa di un vecchio vitigno, è un fenomeno collettivo, tutto il corpo sociale cessa di parlare quella lingua, così l’intera tradizione viticola ed enologica muore e si trasforma. È l’unica testimonianza che abbiamo dal passato, il vitigno, non sono le tecniche enologiche, quelle si sono evolute e non tornano più indietro, non sono, diciamo così, i modi di consumare il vino, che rimangono, è solo il vitigno che ci collega con il passato. Quali sono le tappe di questa estinzione? Intanto la mancanza di un’educazione nella lingua autoctona, così come in viticoltura i cambiamenti nella coltivazione della vite sono i primi a portare nuove varietà, la modernizzazione della viticoltura ha come prima conseguenza l’introduzione di nuove varietà, quindi i vecchi vitigni vengono via via emarginati. Un’altra tappa dell’estinzione è quella che viene chiamata il bilinguismo diseguale. Cos’è? È lo scontro tra due lingue, quando una lingua forte si incontra e si scontra con una lingua debole, la lingua debole, per motivi culturali o per motivi anche economici, viene eliminata. Il mercato mondializzato esige, diciamo così, i vitigni internazionali. È difficile comunicare i vitigni autoctoni; solo i vitigni internazionali si giovano di una comunicazione mondiale (…) che ci consente di vendere quei vini dappertutto. Un’altra cosa importante che fa scomparire una lingua è quello che viene chiamato il prestito. Cos’è il prestito? Il prestito linguistico è il passaggio da una lingua all’altra attraverso una continua sostituzione di termini. Quante sono nella nostra lingua le parole di origine francese o inglese o di altre parti? Continuamente noi sostituiamo parole della nostra lingua con parole che vengono da altre lingue. E così i vitigni “miglioratori” fanno il loro ingresso strisciante nella nostra viticoltura. Sono dei prestiti linguistici, sono dei prestiti viticoli, un po’ alla volta entrano e si modificano, all’inizio sono il 20%, poi diventano il 30%, poi il vitigno autoctono è solamente una piccola cosa e così via. Le cause tutti voi le conoscete. Sono cause di diverso tipo, pensate alle cause fisiche. Nel caso della lingua, per esempio, quando in modo molto violento muoiono tutte le persone che parlano quella lingua, muore anche la lingua. Ma è un caso abbastanza raro, non così frequente, ci vogliono catastrofi, epidemie, migrazioni perché una lingua scompaia. Nella vite, per esempio, non è stata la fillossera la maggior causa di scomparsa, ma sono stati quei fenomeni che sono intervenuti tra il 1400 e il 1700, quando, per un cambiamento climatico sostanziale, gran parte della viticoltura del Nord scompare e molti vitigni che non erano adatti a questi climi freddi vengono abbandonati. È quella la più grande erosione genetica. Pensate che nella notte del 5 gennaio 1709 una grandissima gelata distrugge gran parte della viticoltura europea. La gran parte di quei vitigni non vengono più coltivati. Perché? Perché dopo una così forte perdita di produzione, la domanda di vino da parte del consumatore è talmente impellente, talmente forte che il viticoltore pianta solo vitigni produttivi e non pianta vitigni di qualità. Tutti i vitigni di qualità vengono in quelle occasioni completamente eliminati. Pensate quindi che grande perdita (…). Un’altra causa è quella della riduzione degli spazi naturali.
Angelo Peretti
Davide Paolini, alias Il Gastronauta, mi ha dato ieri la possibilità di dire la mia, in diretta, su Radio 24, in merito a vini “in cartone”. Sì, insomma, quelli inscatolati in brik o in bag in box. Gliene sono grato.
Il fatto è questo: personalmente, mi piace ritrovare in un vino una freschezza fruttata. Tutte le soluzioni tecniche che permettano di conservare al meglio questa sensazione sono le benvenute. Per questo da tempo insisto perché si estenda anche in Italia l’uso della capsula a vite, ed è battaglia dura, perché ci sono in giro un sacco di pregiudizi, conditi d’insana ignoranza. Per questo non sono parimenti affatto contrario all’utilizzo del bag in box come contenitore per il vino in quantità che superino il litro, mentre non amo i cartoncini stile succo di frutta, ossia i brik.
Non ho dunque nulla in contrario che i vini giovani e quelli già perfettamente affinati vengano commercializzati in bag in box, anzi. Non l’ho mai scritto sinora, ma lo vado dicendo da tempo, e anche in questo caso so che, per quanto concerne l’Italia, s’alzeranno gli strali di chi non vuole o non sa superare, appunto, il pregiudizio.
Unica differenza: vedo la capsula a vite adattissima alla ristorazione o al wine bar, mentre il bag in box è orientato esclusivamente al consumo domestico.
Vengo più in dettaglio al bag in box.
Che cos’ha di positivo?
Ha, l’ho già detto, la prerogativa di garantire quella che ho definito “freschezza fruttata” delle sensazioni organolettiche. Ma questo è poco. Ha anche che viene confezionato con impianti che richiedono altissima tecnologia, e dunque offre considerevoli garanzie sotto il profilo igienico, che non è cosa da poco, anche per garantire la qualità finale del prodotto. Poi, impedisce l’avanzata dell’ossidazione: chiude bene, tiene il vino integro: che volete di più se il vino non è destinato ad essere stivato per anni et annorum in cantina? Ha poi che se non lo finisci non succede niente: riprendi a spinarlo domani. In più, favorisce la convivialità, e per me questa è una prerogativa essenziale del vino, ma di questo riparlo più sotto. Ancora: la confezione è facilmente separabile e quindi interamente riciclabile, e questo, permettetemelo, è una qualità altrettanto importante, per chi “naturale” lo vuol essere davvero, e non solo nell’enunciazione di principi bio-qualcosa nella produzione di vigna e cantina.
Dicevo della convivialità. Questa qui è la più importante chiave di volta del bag in box là dove ha più successo, ossia nei paesi scandinavi. Là, trovarsi a cena fra amici nel lunghissimo inverno settentrionale è una sorta di rito. Ed altrettanto rituale è andare a trovare gli amici portando un vino in bag in box. Si mette la scatola da due o tre litri in mezzo alla tavola e ciascuno spilla la propria parte, conversando e mangiando. Mi ricorda – non se n’abbiano a male gli esteti della tradizione autoctona – una ritualità a me proibita (sono intolerrante all’aglio) della terra piemontese: la bagna cauda. Perché anche questa prevede che la pignatta con la salsa agliato-acciugosa venga messa in mezzo e ciascuno c’intinge le proprie verdure. E favorisce così, da sempre, la compagnia, la chiacchiera, la condivisione. Come il bag in box in Scandinavia.
Per questo gli scandinavi s’aspettano di trovare nei bag in box non anonimi vinelli da quattro soldi, ma bei vini che esprimano personalità e pulizia e piacevolezza. Una sfida, per i paesi di storica consuetidine enoica. Una sfida però da vincere, badando alla sostanza, che è la qualità del vino, e non alla forma, che è il contenitore del vino.
Chiudo dicendo che il bag in box può essere anche carino. In particolare, lo sono i Bib Art che vengono prodotti da una cantina di qualità della Languedoc francese, Chateau Puech-Haut. Funziona grosso modo così: ogni tanto, Gerard Brun, il titolare, mette a disposizione di un pittore una barique, chiedendogli di decorarla, e poi quell’opera viene riprodotta pari pari su delle simil-barrique metalliche da cinque litri, dentro alle quali si mette la sacca di materiale plasticoso (il bag in box, appunto). Tra l’altro, è anche simpatica la formula proposta ai pittori: il contenitore in cambio del contenuto. Ossia: l’artista si porta a casa il vino – tutto – che c’era dentro la barrique che ha impreziosito con l’arte sua. Eppoi, la collezione delle barrique (originali) dipinte viene esposta in mostre itineranti.
Be’, volete che vi dica? A me quelle Bib Art piacciono. Il costo? On line comprate l’ultima edizione intorno ai 30 euro, che magari non è moltissimo, ma non è neppure poco. Alla faccia di chi pensa che nel bag in box ci debba andare il vinello, o qualcosa che comunque finisce con ello.
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